Scritto da: admin il: agosto - 11 - 2016 Commenti disabilitati

Per Insaziabili Letture

SI ALZA IL VENTO (2013)

Ultima opera d’animazione del maestro Hayao Miyazaki, prima del suo ritiro dalle scene, pur restando comunque all’interno del suo amato Studio Ghibli. Sceneggiato dallo stesso Miyazaki, fonde il manga(fumetto) Kaze Tachinu, da lui stesso creato e disegnato, con il libro Si Alza il Vento di Tatsuo Hori. Ho espressamente usato il termine “opera” in quanto ritengo che definirlo film d’animazione sarebbe riduttivo, poiché rimanderebbe a un qualcosa di molto lontano da questa sua ultima realizzazione.

Per tutti coloro che non conoscono il lavoro di Miyazaki, premetto subito che per approcciarsi a questo grande maestro dell’animazione sicuramente questo non è il film più adatto, in quanto è da considerarsi un po’ la chiusura di tutto il lavoro di una vita, l’ultima gemma, la più splendente, di una corona tempestata di gioielli. Quindi consiglio di partire da altre pellicole; per chi è come me della così detta “Generazione G(Goldrake)”, che già ha avuto modo di conoscere l’animazione di Miyazaki con Conan – Ragazzo del futuro, Lupin III la prima serie(giacca verde) e Heidi, avrà già dimestichezza con alcune delle caratteristiche proprie di questo grande artista. Per chi invece è totalmente nuovo, oltre alle serie sopra citate che comunque restano delle perle nello sconfinato mondo delle Anime, suggerisco titoli come La città Incantata(con cui vince l’Orso d’Oro e l’Oscar), Il Castello Errante di Howl, Porco Rosso, Una Tomba per le Lucciole, Il Mio Vicino Totoro, Ponyo sulla Scogliera e Nausicaa della Valle del Vento.

Torniamo a Si Alza il vento. Si tratta di una sorta di biopic di Jiro Horikoshi, ingegnere aereonautico, inventore del caccia “Zero”, prodigio tecnologico usato dal Giappone nella Seconda Guerra Mondiale. Dall’infanzia in provincia, alla rinuncia del sogno di diventare pilota a causa della forte miopia che lo colpisce fin da piccolo, il giovane Jiro, schivo e riservato, si fa largo nel mondo degli aerei con le sue idee innovative, mentre il Giappone intorno a lui cresce e si evolve economicamente tra mille difficoltà. Jiro insegue il suo sogno, lasciandosi andare a un mondo onirico parallelo dove incontra il costruttore italiano Caproni, materializzazione del suo io interiore, che gli fa da guida tra i mille pensieri che lo attanagliano soprattutto da ragazzo. Tra successi, fallimenti, il nascondersi alla polizia segreta, e quel sogno che ancora non riesce a concretizzarsi, Jiro incontrerà la bella Nahoko, l’amore della sua vita. Purtroppo la ragazza è affetta da tubercolosi e questo influirà sulla loro storia d’amore.

Premetto subito che Si Alza il Vento è davvero un opera su cui si potrebbe parlare per ore, per via delle molteplici sfaccettature e chiavi di lettura che offre, oltre ai centinaia di dettagli su cui varrebbe la pena soffermarsi, quindi perdonatemi se sarò un po’ prolisso.

Cardine fondamentale, che salta subito all’occhio, è sicuramente la doppia chiave di lettura del personaggio. Il protagonista è al tempo stesso sia Jiro Horikoshi che lo stesso Hayao Miyazaki. Il parallelismo tra la vita dell’ingegnere e quella del disegnatore/regista è evidenziata sia dai tratti (Jiro è identico a Miyazaki da giovane), sia dal percorso e dagli ostacoli nella sua vita, basti pensare al problema della miopia, di cui il maestro ha sempre sofferto e per cui gli fu sconsigliato il mestiere di disegnatore, motivo per cui affiancò alla sua passione anche altri studi, laureandosi in Scienze Politiche ed Economia. Sicuramente anche il giovane Miyazaki, come Jiro, aveva sognato il volo, in quanto settore dell’azienda di famiglia (Miyazaki Airplane), costruttori molto conosciuti ai tempi in Giappone, tra le cui produzione c’era proprio anche lo stesso caccia Zero. Inoltre la figura onirica dell’ingegnere italiano Caproni (il mio preferito) rappresenta la coscienza adulta dello stesso Miyazaki che parla al se stesso da giovane, rappresentando un momento davvero profondo in cui il maestro parla dei suoi valori ed esprime la sua opinione sulle grandi questioni della vita, in particolare sulla guerra.

Altra cosa che salta subito all’occhio è la cura dei dettagli, spinta quasi alla maniacalità. Ogni veicolo, aereo o automezzo, è riprodotto fedelmente fino all’ultimo bullone. Le città e le fabbriche sono state ricostruite secondo foto dell’epoca. Ogni inquadratura, specie quelle che ritraggono periferia e campagna, sembra un bellissimo quadro in cui l’animazione si perde fino a divenire parte di essa. Lo stesso Miyazaki ne ha curato alcune, imponendo ai suoi collaboratori un’attenzione minuziosa che impreziosisce ogni scena.

La colonna sonora è una piccola perla che accompagna la narrazione senza mai essere invadente. In molti tratti addirittura è assente, poiché Miyazaki ha preferito dare spazio al silenzio, motivando la scelta in un’intervista col fatto che “il silenzio è la colonna sonora che spesso accompagna la vita”. Ed è proprio in questo concetto che risiede la grande valenza di Si Alza il Vento. È vero, è reale, talmente tanto che ti si appiccica addosso e ti resta dentro. Sicuramente una scelta commerciale davvero azzardata che va contro il mercato estero, basti pensare che proprio molte delle parti silenziose(senza colonna sonora) degli altri suoi film furono in parte tagliate, soprattutto in America, dove il concetto Disneyano del film d’animazione impone che ogni secondo o si canti o il parlato sia sorretto da un jingle musicale diverso per ogni personaggio/stato d’animo.

Miyazaki questa volta se ne frega in toto. È il suo ultimo film e vuole realizzarlo come gli pare. Vuole onorare la tradizione, cardine fondamentale di tutte le sue opere, per cui si rifà anche al concept di animazione con cui è cresciuto, riutilizzando mezzi tradizionali, basti pensare che tutti i rumori che si sentono sono stati realizzati a “bocca”.

Il maestro onora la tradizione e la storia del suo paese, ma non si sottrae a criticarne sia i costumi sia le scelte politiche, affrontando argomenti importanti e disegnando un Giappone con tanti pregi ma anche tanti difetti. Un luogo in pieno sviluppo industriale, il cui moderno contrasta duramente con il tradizionale, e in cui la natura spesso la fa da padrone. Ne è esempio la scena del grande terremoto del 1923, che distrusse Tokyo e gran parte del Giappone. La scena avviene inaspettata, come un pugno nello stomaco dello spettatore, dopo l’idilliaco paesaggio provinciale, da cui Jiro si sta trasferendo per continuare gli studi, e subito dopo il primo incontro con il suo grande amore. Mossa “geniale” a mio avviso, dal punto di vista di sceneggiatura, quella di spiazzare a quel modo la platea.

Dal punto di vista della trama la storia d’amore, totalmente inventata (come molti altri dettagli della vita di Jiro Hiroshi in quanto di lui sono rimaste davvero pochissime notizie), ne impreziosisce ancora di più la poetica. Concreta, vera e dura, come la vita che viene descritta. Preferisco non aggiungere altro per non svelare niente, ma credetemi: quando vi dico che questo film ti resta dentro non lo dico a caso.

Concludendo, a mio avviso siamo di fronte a un vero e proprio capolavoro, motivo per cui all’inizio dicevo che definirlo film d’animazione (soprattutto per il concetto che ne abbiamo) è riduttivo. Siamo di fronte a un vero e proprio film, di quelli che non si dimenticano. L’ultima grande opera di un vero maestro, un genio dalla sensibilità artistica infinita, come ce ne sono pochi, che qui si spoglia delle mille maschere dei personaggi da lui creati per parlare di sé, per portare il suo pensiero allo spettatore, facendolo totalmente a modo suo.

Permettetemi una breve impressione personale. Ritrovo alcuni punti di contatto tra quest’opera e il suo creatore, con un altro grandissimo genio artistico in uno dei suoi capolavori, cioè Charlie Chaplin ne “Il Grande Dittatore”. In entrambe le pellicole assistiamo alla fine di un ciclo; questo è l’ultimo film di Miyazaki prima del ritiro, mentre ne Il Grande Dittatore Chaplin fa apparire per l’ultima volta il personaggio suo alter ego del “Vagabondo”. Entrambe le pellicole hanno una forte valenza critica nei confronti della politica dei rispettivi paesi d’ambientazione, ambedue risucchiati nella seconda guerra mondiale dalla brama espansionistica. La cosa però che più mi ha colpito è stata che in tutte e due le pellicole, a un certo punto della storia, i propri creatori svestono i personaggi principali trasformandoli in loro stessi, per far sì che lo spettatore ascolti direttamente da loro il proprio pensiero. Accade in Si Alza il Vento, quando il giovane Jiro e il vecchio Caproni, due parti dell’io stesso dell’autore, si ritrovano a parlare sull’ala di un aereo. In quel momento entrambi divengono anche visivamente lo stesso Miyazaki(Jiro nei tratti e Caproni per la saggezza dell’età), che ci dice il suo pensiero sulla guerra e sulle aspettative della vita. Allo stesso modo avviene per Chaplin ne Il Grande Dittatore. Nel famoso discorso all’umanità, non è il dittatore che parla, non è il piccolo vagabondo ebreo che parla, ma Chaplin stesso, un uomo con un paio di baffetti incollati sopra la bocca che fino a poco prima lo rendevano un personaggio e non una persona, che ci esprime il suo pensiero sulla guerra e sulla tirannia. Questa è una prerogativa solo dei grandi geni.

 

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