LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT – MA NON ERA LUI.
Sono sincero: quando ho visto il primo trailer al cinema mi son detto “ma che stronzata”. All’uscita del film il gran tam tam mediatico è cosa che già di per sé non mi fa apprezzare una pellicola. Per non cedere ai preconcetti mi son letto la trama e mi son detto “però, strano che in Italia si dia spazio a un film del genere, per niente italiano”. Cercate di capirmi: in Italia ormai si producono solo due filoni, quello sociale/commedia (amara o dolce), o il comico/cinepanettone. Dopo poco il film raccoglie un coro unanime di elogi e premi. Siccome difficilmente mi schiero con la folla, ho preferito far lasciar passare un po’ di acqua sotto i ponti (roso dalla curiosità) e finalmente dopo tempo me lo son visto, con uno scetticismo e una voglia di ricredermi tutti miei. Posso asserire senza dubbi che stavolta i più avevan ragione. Un vero gioiello di film. Davvero non facile trovare le parole per descrivere o criticare una cosa quando ti piace a questo modo. Andiamo per ordine. Il regista Gabriele Mainetti orchestra e dirige con polso fermo una trama che potrebbe risultare la più scontata del pianeta, essendo il classico cliché della nascita del supereroe casuale, se non fosse per l’ambientazione di borgata (film ambientato a Roma e periferia) che ritenevo essere l’azzardo più grosso per via della credibilità, invece funziona e alla grande. Tutto il film infatti è “credibile”(in senso cinematografico s’intende e partendo dal concetto di un genere fumettistico); non stona, è perfettamente incastrato nella realtà che gli fa di sfondo. Inoltre l’aver incastonato la sfera della microcriminalità da quartiere, a tinte nude e crude, al servizio di un storia più da fumetto, gli conferisce una originalità tutta sua. Il ritmo è sempre elevato e la storia è dosata ottimamente come un crescendo che porta a uno scontro inaspettato, che è tale non tanto perché non si pensava ci si arrivasse ma perché è in pieno stile Marvel Avengers. Una fotografia scura, di forti contrasti e colori sbiaditi, che da quel gusto in più alla pellicola, molto da cinema americano(Captain America – The Winter Soldier dei fratelli Russo, tanto per citarne uno di genere attinente). Mi è sembrato di cogliere molti riferimenti(o omaggi che dir si voglia) cinematografici, in particolare a Unbreakable – Il Predestinato di M.Night Shyamalan, e sarà una cosa mia ma nello scontro tra i due forzuti nelle gallerie sotto gli spalti dello stadio Olimpico mi è sembrato di vedere per qualche attimo alcuni frame che ricordavano un po’ tali Bruce Lee e Chuck Norris al Colosseo nella famosa sequenza di combattimento de L’Urlo di Chen Terrorizza anche l’Occidente(che amo). I personaggi sono la cosa più bella del film, borderline come quei margini della società in cui sono immersi. Enzo, un ladruncolo morto di fame (interpretato splendidamente da Claudio Santamaria, attore che tra l’altro detesto ma che qui ho amato) che vive in periferia in un appartamento squallido e spoglio, è caratterizzato davvero in un modo fantastico. Prima parlavo di credibilità, che nel cinema è la cosa più importante; per farvi capire bene, chiedetevi quale sarebbe la prima cosa che fareste se vi accorgeste di avere improvvisamente una super forza. Enzo, che lo vediamo avere nel frigo solo un paio di vasetti di budini alla crema e sfamarsi solo con quelli, cosa fa non appena si accorge di avere questo super potere? Si mette una felpa con cappuccio, una sciarpa che gli copre il volto, va a un bancomat, gli tira un paio di cazzotti, lo sradica in un minuto, se lo mette sotto braccio e se lo porta a casa, per poi riempirsi il frigo di budini alla crema. Ecco, questo è rendere un personaggio “vero” e farne capire la psicologia nelle piccole cose. L’eroe acquisisce pian piano consapevolezza del suo ruolo e delle sue responsabilità, ovviamente non lo fa mai da solo; il personaggio di Alessia (Ilenia Pastorelli, che offre una gran interpretazione), una ragazza con problemi psichici che si è rifugiata nell’ossessione per il cartone animato Jeeg Robot d’Acciaio al punto di mischiarlo con la squallida realtà di sofferenza in cui vive, è la figura più toccante del film e gli fornisce tutta una sfilza di emozioni che servono in primis al personaggio principale in sceneggiatura(aiuterà Enzo a prendere coscienza di sé e di ciò che è giusto fare), ma soprattutto allo spettatore per entrare completamente in empatia con la pellicola. Mi sono tenuto il migliore per ultimo: lo Zingaro, il villain della storia, che è FENOMENALE! Luca Marinelli fa una prova eccezionale, tanto che, a mio personale giudizio, il personaggio che ne viene fuori è talmente bello che svernicia il Joker di Heath Ledger ne Il Cavaliere Oscuro(anche se ammetto che qui l’attore ha il vantaggio di costruirsi una figura totalmente sua, scevra da riferimenti o confronti/parallelismi a precedenti versioni). Le uniche due critiche che mi viene da fare sono strettamente personali, quindi questione di gusto. La prima è sul titolo: la scritta in giapponese è solo fuorviante, non necessaria; da nerd capisco perché c’è stata messa, ma non ha finalità col film. La seconda riguarda il dialetto; sicuramente gli da una contestualità marcata e precisa, ma alleggerirlo un pelo a favore dell’italiano forse gli avrebbe dato una pennellata di universalità che a un prodotto del genere male non fa. Lo so, può sembrare un controsenso rispetto a quel che ho detto prima sulla credibilità riferita al contesto del film, essendo gente di borgata non potevano non parlare romano, ed è giustissimo, ma anche lì ci sono diverse dosature. Non posso far altro che consigliarvelo, non solo perché in Italia è qualcosa di nuovo, ma anche perché è nettamente sopra la media della produzione cinematografica dell’ultimo anno(80% circa). Lo Chiamavano Jeeg Robot mi illude di ricredermi nel cinema italiano, che possa davvero cambiare qualcosa, perché è la dimostrazione che anche in Italia se si vuole(leggi produce) si può fare anche altro. È una cosa che io sostengo da moltissimo: non è che non ci sia gente capace, idee alternative e capacità di fare film diversi, è che non vedranno mai lo schermo della sala perché non verranno mai prodotti. Ecco perché spero davvero che questo film sia un primo passo verso un’apertura che manca dall’essiccarsi dei filoni dei generi (poliziotteschi, horror, etc), che sono nati o hanno trovato grande sviluppo in Italia fino a una trentina di anni fa, anche se è tanta la paura che resti una perla solitaria in un grigio oceano immobile e sempre uguale.