Con “Anime assassine – i casi dell’ispettore Quetti” (Aletti Editore), una raccolta di racconti siglata da Diego Collaveri debutta una nuova serie di avventure noir italiane. “Intrighi nascosti, macchiati di sangue innocente, si agitano all’ombra del quotidiano –leggiamo dalla quarta di copertina- divorando come un mostro il ventre molle di una città inconsapevole, nei cui vicoli bui si muove Quetti, figura cinica e solitaria, un antieroe con la sigaretta sempre tra le labbra. Sette casi di questo ispettore di polizia, legato a doppio filo all’oscura realtà che combatte e che sembra scorrergli dentro da un lontano passato misterioso, capace di smascherare intricate macchinazioni, nascoste dietro efferati delitti, e di ergersi come ultimo baluardo di speranza… poiché solo chi ha attraversato l’oscurità può senza paura squarciare l’apparenza per guardare in faccia il mostro”. Ed è lo stesso Collaveri a spiegarci la genesi delle sue storie.
Come è nato l’ispettore Quetti?
Volevo mettermi in gioco partecipando ad un concorso di narrativa; così sfidai me stesso tentando di scrivere un classico racconto giallo, con sospetti/assassino e sfida al lettore ben presenti sin dalla prima riga, nelle ristrette limitazioni di spazio, appena quattro pagine, del regolamento. Nacque così “L’Enigmista”, prima avventura di Quetti, che vinse il concorso e mi spinse ad allargare quel primo assaggio in una versione estesa, raccogliendo numerose critiche positive. Penso sia stata proprio la tensione di questa sfida a generare il suo carattere particolare, punto di partenza da cui poi si è sviluppato tutto il mondo che gli gira intorno; è risultato quindi naturale inserire questo racconto all’interno di “Anime Assassine” come primo capitolo.
Ti senti più influenzato dal cinema, dal fumetto o dalla letteratura?
Amo il cinema; la mia passione per il genere noir ha sempre influenzato il mio background di regista/sceneggiatore ed il mio modo di scrivere, ma nel caso di Quetti mi piace pensare ad un confluire di queste tre forme artistiche. Per come l’ho immaginato Quetti è un tipico antieroe dei film di John Huston, in una città indefinita ma reale, dalle ambientazioni surreali e forti di un fumetto di Frank Miller, in cui l’ispettore risolve omicidi, all’apparenza impensabili, grazie ad una logica innata e ad un forte spirito di osservazione, come numerosi illustri predecessori. Penso che questa caratteristica riesca ad uscire fuori dalle pagine del libro, infatti spesso mi hanno chiesto se avrei dato un’evoluzione, come fumetto o come serie tv, a queste storie.
La forma del racconto, secondo te, ti ha aiutato nel costruire l’immaginario del tuo personaggio o con un romanzo avresti avuto una dimensione narrativa diversa?
Penso che il racconto, in questo caso, snellisca la narrazione, velocizzandone la fruizione e riuscendo a proiettarci nel pieno della vicenda sin dalle prime righe, poiché la realtà in cui si muove il protagonista viene descritta solo in funzione dello svolgersi della storia; questo fa si che ogni racconto aggiunga un tassello all’immaginario del lettore, senza però privarlo della curiosità e del gusto della scoperta. Sicuramente questo ha influenzato lo svilupparsi del mondo descritto in Anime Assassine. Per come lo vedo io, il romanzo avrebbe avuto un altro taglio, permettendomi di andare più a fondo nel microcosmo in cui si muovono i personaggi, ma ho preferito che molte cose non dette avessero più peso di quelle conosciute. Inoltre la forma del racconto ha permesso che ogni storia fosse una cosa a se, e che l’ordine con cui le incontriamo, all’interno del libro, non seguisse un percorso cronologico ma evolutivo, dai toni puramente gialli del primo racconto a quelli profondamente noir dell’ultimo.
Perché, dovendo scegliere un genere narrativo per debuttare, hai scelto proprio il giallo?
Lo ritengo il genere più completo e quello che più si presta a molteplici sfumature; mi piace la sua complessità, la suspence e la curiosità che crescono in un ritmo scorrevole, e la sfida che nasce con il fruitore, nel mostrargli qualcosa che poi è tutt’altro. In Anime Assassine ho cercato proprio di valorizzare tutti questi aspetti, ed in particolare proprio l’ultimo, tentando di nascondere l’inaspettato fino all’ultima pagina, non solo all’interno dei singoli racconti, ma anche nella totalità dell’opera, affidando all’ultima storia, delle sette di cui è composto il libro, quel risvolto improvviso che mette in discussione tutto il personaggio conosciuto fino a quel momento.
Cosa ti diverte di più e cosa ti spaventa di più di quello che scrivi?
La parte più divertente è affidare dei particolari, fisici o comportamentali, di persone che conosco ai personaggi che creo; questo mi aiuta a renderli più veri. Quello che più mi spaventa è la considerazione sulla società umana, che si estrapola dai fatti riportati da giornali e tv, e che ho impresso nel senso di Anime Assassine: il male fa parte dell’animo umano, alcune volte è una piega nascosta del carattere, altre volte ha una maschera anonima, altre ancora si nasconde dietro all’impensabile; ma nonostante la società si evolva e muti sono sempre vendetta, potere e denaro a macchiare le mani di sangue. Pur non ispirandosi ad alcun fatto o persona reale i personaggi sono impregnati proprio di questo senso, ed immersi in un’ambientazione indefinita per rendere il messaggio ancora più universale e vicino a noi; questa pessimistica sfiducia nell’essere umano è quello che più mi spaventa.