THE HATEFUL EIGHT… OR NINE. Si può amare un personaggio odioso e scomodo? Se la risposta è sì direi che alle otto figure del film dobbiamo aggiungere anche il suo creatore, l’odiato/amato Quentin Tarantino, qui alla sua ottava pellicola e alla seconda di seguito dal sapore western. Definire un’opera di Tarantino non è facile, ma qui è davvero un’impresa. Io direi un gran bel film complesso, opulento e maturo, difficile da recepire e digerire. Se poi si va sul classico e sbrigativo mi piace/non mi piace, essenziale in quanto termometro del pubblico, a me è piaciuto molto, ma con me è facile in quanto mi piacciono Tarantino, i film western, John Carpenter, La Casa di Sam Raimi e i vecchi film di samurai giapponesi da cui il genere western ha preso molto. Ho trovato un Tarantino molto maturo, attentissimo all’estetica dell’inquadratura(la scena dei cavalli al galoppo nella neve fa venire freddo), dando un significato a ogni singolo e possibile aspetto visivo (il vapore che esce dalle bocche che si incrocia durante un dialogo ravvicinato) senza però mai abbandonare i suo classici riferimenti e citazioni. L’inganno, la duplicità, è ciò che permea il film, anche visivamente (ad esempio il film si apre da un primo piano di una scultura tra la neve e poi nel paesaggio innevato dietro passa una carrozza, subito dopo c’è il nero con la titolazione del primo capitolo e vediamo una carrozza con a bordo il Boia e la sua prigioniera; più tardi ci sarà nel film una scena molto simile che però riguarda un’altra carrozza. Siete davvero sicuri di aver visto nella scena d’apertura proprio la carrozza con a bordo il Boia e la prigioniera? ). La cosa che subito salta all’occhio è il ritorno al format d’esordio di Le Iene con un manipolo di personaggi racchiusi in uno spazio ben delineato (Tarantino stesso lo sottolinea di continuo con riferimenti al suo stesso film, ad esempio il personaggio di Tim Roth viene colpito nello stesso punto del Mr.Orange sempre da lui interpretato). Qui c’è il grosso valore aggiunto della perfetta dosatura tra gli spazi aperti dei maestosi paesaggi, dove però non avviene mai l’azione, e gli interni (fondamentalmente due: carrozza ed emporio) dove avviene l’interazione tra i personaggi. Tornando al parallelismo con Le Iene, la differenza più evidente è la durata della pellicola; infatti The Hateful Eight è il film più lungo di Tarantino, mentre l’altro è il più corto. La prima cosa che mi sono chiesto era appunto se Tarantino avrebbe saputo tenere il tono alto su di una durata così lunga e qui si arriva al primo punto del film su cui i giudizi del pubblico hanno preso due strade diverse. Il film è nettamente diviso tra una prima parte, di presentazione e messa in campo dei personaggi, e una seconda di dispiegamento e risoluzione della storia. Sulla prima parte il pubblico si è appunto diviso, tanto che in molti ne hanno sottolineato la lentezza fin quasi al sopraggiungere della noia. Dal mio punto di vista (opposto) ho letto tutto questo come una cosa voluta, un tendere ad allungare un’attesa rendendola volutamente pesante. Perché l’ho pensato: in primis la lentezza è una delle caratteristiche del western epico, quindi l’indugiare su certe azioni, le attese nei dialoghi, il sembrare che il film giri a vuoto e che si stia perdendo tempo, mi hanno molto ricordato alcuni film di John Ford, in particolare Ombre Rosse, di cui ho ritrovato (molto più marcate) le stesse dosature. La tecnica narrativa invece è propria del giallo classico, con la formula “chi sta mentendo?”, “chi non è chi dice di essere?”. Ecco allora che d’un tratto mi son sentito risucchiato in un vortice: un mix, da Dieci Piccoli Indiani a Assassinio sull’Oriente Express (tratti dai capolavori di Agatha Christie), orchestrato nelle ambientazioni gelide di La Cosa di John Carpenter (lo stesso Tarantino ha affermato di essercisi palesemente ispirato, anche per le dinamiche di rabbia e mancanza di fiducia crescente nei personaggi), rinchiusi in un contesto claustrofobico come La Casa di Sam Raimi (notare che c’è anche la botola), il tutto in salsa western. Quindi siamo di fronte a una immensa conoscenza del cinema e dei mezzi narrativi per creare suspense, immersi in una lentezza volutamente dilatata nell’attesa (di gusto un po’ Hitchcockiano tipo Gli Uccelli) talmente sul filo che può anche scadere nel pesante in quanto opulenta da digerire. Tarantino si autocita di continuo, riferendosi soprattutto a Bastardi Senza Gloria, anche se quello che più mi è piaciuto è il riutilizzare il movimento di macchina che segue i soggetti dall’alto, dall’intercapedine del soffitto, come in Kill Bill vol.1 nel locale giapponese. Anche qui abbiamo la divisione in capitoli, meno frammentaria e più cronologica rispetto ai film precedenti del regista, ma appunto anche questo fa parte di quella scorrevolezza lenta di cui parlavo prima. Arriviamo poi a una seconda parte in cui la storia si dispiega e prende un ritmo più incalzante, seguendo sempre il meccanismo alla base dei giochi tipo cluedo e indovina chi, rimescolando il mazzo di continuo. Molti han puntato il dito inneggiando a scene splatter di sparatorie, io non l’ho ritrovata questa cosa, anzi, era molto più crudo Django da quel punto di vista specie nella sparatoria finale dentro la villa. Il tutto è condito dal solito dialogo Tarantiniano che non ti fa mai perdere di vista il fatto che stai guardando un suo film, ecco allora che il tono a tratti si alleggerisce con battute epiche (su “questa porta è una troia” son morto), senza mai però perdere quel fondo pungente, che sfocia poi in una critica sociale che lo rende importante. Un particolare mi ha particolarmente affascinato; l’utilizzo e il significato della lettera di Abramo Lincoln portata dal Maggiore Warren l’ho trovato di una genialità assoluta, un falso macguffin che ci inganna all’inizio con l’aura dorata come il contenuto della valigetta di Wallace in Pulp Fiction, per poi dimostrarsi cosa non è. Tutto questo da un vestito ai personaggi, facendo risaltare quelli a mio avviso più belli e interessanti: il Maggiore Warren (Samuel L. Jackson) e Daisy (Jennifer Jason Leight) primi fra tutti, e poi a seguire Mannix (Walton Goggins). Personaggi sfaccettati e profondi, specie i primi due, capaci di esprimere continuamente diverse chiavi di lettura, che sono essenziali al dipanare una trama ingannevole, sebbene restino sempre fedeli a loro stessi(quindi delle vere merde), non percorrendo un percorso evolutivo all’interno della trama. Altra cosa puramente tarantiniana è il far spuntare fuori un personaggio gettandolo nel mazzo in modo da poter offrire un nuovo risvolto alla trama, per poi togliercelo quasi subito; qui è il caso del personaggio di Channing Tatum, che generalmente detesto come attore e che invece qui ho apprezzato. Devo ammettere che invece sono rimasto mal impressionato dai due attori classici di Tarantino: Michael Madsen e Tim Roth. Il primo ha già l’handicap di interpretare un personaggio che ha poco da dire e ciò rende già in partenza difficile brillare come interpretazione; la sua utilità mi è sembrata prettamente figurativa, anche per citare alcune scene di Kill Bill vol.2 dove appunto era presente (l’ingresso nell’emporio è nella medesima formazione dell’ingresso in chiesa della squadra di assassini di Bill). Roth invece risulta continuamente la fotocopia feticcia di un tot di personaggi di Tarantino (da appunto altri interpretati da lui come Mr.Orange di Le Iene e quello di Pulp Fiction, fino al Dr. Schultz di Django invece interpretato da Christopher Waltz). Kurt Russell davvero in parte. Le musiche di Morricone sono fantastiche e danno all’opera davvero quel tocco di western che ci trascina in un cinema che non si fa più, idem l’utilizzo delle lenti anamorfiche Panavision per un aspetto visivo ampio utilizzato tra gli anni ’50 e ’60 in kolossal come Ben-Hur, senza contare le edizioni limitate del film distribuite nell’ormai più utilizzata pellicola 70mm. Per chiudere un gran bel film però molto particolare, di quelli che non ci si deve vergognare a dire “non mi è piaciuto” perché è davvero troppo particolare e non lo si può apprezzare fino in fondo se non si ama un certo genere di cinema; solo avendo certe chiavi di lettura si può apprezzare il gioiello che è. Un suggerimento: ho usato spesso il termine “opulento” per sottolineare che ci sono talmente tante (troppe) cose da analizzare in ogni singola scena, che una sola visione è insufficiente a notarle tutte.